L’influenza del lavoro domestico su Care economy e PIL
La cosiddetta ‘donna di servizio’ non è più emblema dello status socio-economico della famiglia benestante. Questa figura oggi è presente in ogni strato sociale. Colf e soprattutto badanti, sono richieste da tutti. Secondo i dati Istat sono proprio gli anziani con i redditi più bassi ad essere maggiormente colpiti da malattie croniche gravi (46% a fronte del 39% delle classi più abbienti) e da gravi riduzioni di autonomia nelle attività di vita quotidiana (1,2% a fronte dell’8% delle classi più abbienti).
A causa della prolungata assenza dello Stato, le famiglie sono diventate l’attore economico predominante nel panorama della care economy. In particolare, le famiglie datori di lavoro domestico consentono allo Stato di risparmiare 15 miliardi di Euro all’anno, incidendo anche sul PIL e le casse dell’INPS. Questi datori si sostituiscono all’assistenza pubblica e gestiscono oltre un milione e mezzo di lavoratori dentro casa. In più, molti italiani, vittime della crisi economica, stanno riscoprendo e valorizzando il lavoro domestico. Il comparto non ha conosciuto crisi e promette un forte incremento nei prossimi anni.
Dall’analisi dei dati della Ricerca DOMINA “Il valore del lavoro domestico” (Dossier 6), di cui sono curatore scientifico, emerge la differenza di impegno nel settore domestico tra Stato e Famiglie. La care economy è caratterizzata da quella che potremmo definire una correlazione inversamente proporzionale che coinvolge assistenza pubblica e privata. L’esempio più evidente di questa tendenza è l’Assistenza Domiciliare Integrata (ADI) pubblica. A fronte di un aumento della quota degli anziani che beneficia del servizio, è corrisposta una riduzione delle ore erogate dall’ASL territoriale. Le Regioni che hanno un’utenza limitata riescono ad assicurare una copertura oraria sufficiente a soddisfare le esigenze di assistenza. Invece, nelle Regioni con utenza più vasta la copertura oraria si riduce.
Le mancanze della care economy, vanno a pesare sulle famiglie e gli effetti sono rintracciabili anche in altre aree. A dimostrarlo sono le statistiche pubblicate dall’Istat secondo cui nel 2017 il potere di acquisto (reddito reale) per la famiglia è sceso dello 0,3% su base annua portando ad un risparmio sull’acquisto di farmaci e cibo. Non solo, la componente di valore aggiunto generata dall’impiego di lavoro irregolare è più alta nel settore ‘Altri servizi alle persone’ (23,6% sul totale degli irregolari in Italia nel 2015), soprattutto a causa del lavoro domestico.
Il settore domestico contribuisce attualmente all’1,3% del PIL (circa 19 miliardi di Euro generati da colf e badanti) e secondo le stime della Ricerca DOMINA la metà dei lavoratori domestici, circa 1 milione, attivi in Italia non ha un contratto regolarmente registrato. Immaginate il beneficio in termini di valore aggiunto che potremmo avere se aumentasse la quota dei lavoratori regolari.
Per garantire la salute e l’efficienza della care economy sarebbe opportuna una politica strutturata in grado di incidere positivamente su assistenza pubblica e privata. Politica che consentirebbe di incentivare l’emersione dal nero e di arginare la correlazione negativa esistente tra esigenza di cura e assistenza alla persona.